
Uncharted: L’Eredità Perduta
Sviluppatore: Naughty Dog
Publisher: Sony Interactive Entertainment Europe
Genere: Avventura azione 3D
Disponibile: Digital+retail
PEGI: 16+
Lingua: Italiano
Ringraziamo il publisher per averci fornito una copia review
Per una software house dalla granitica tradizione come Naughty Dog, pubblicare uno spin-off di Uncharted 4 costituisce un classico caso di “usato sicuro”: il brand è autoalimentato grazie a una sequenza ininterrotta di successi, l’utenza è fidelizzata al punto giusto, e la materia prima è già pronta e tarata sui parametri della generazione corrente. Insomma, che a livello formale (e, a quanto pare, critico-commerciale) questo Uncharted: L’eredità perduta funzioni come un orologio svizzero meraviglierebbe solo gli sprovveduti, trattandosi nella fattispecie di una sorta di copia carbone dell’ultimo episodio della saga.
La scelta di Naughty Dog dimostra comunque una buona dose di acume. Se le avventure dell’iconico Nathan Drake possono dirsi ormai definitivamente concluse, la fertile miniera dell’universo Uncharted può ancora essere sfruttata con profitto, semplicemente rimescolando un po’ le carte in tavola: è sufficiente infatti dar fondo alla pletora di relazioni irrisolte tra i personaggi secondari, redigere una storyline che ne giustifichi l’improvvisa comparsa sulla ribalta, e costruire loro attorno il consueto, rutilante palcoscenico fanta-archeologico. Da Uncharted 4 si recupera anche la dinamica di coppia, solo che al posto del bipolo Nathan/Sam si trova qui una variatio al femminile: scendono in campo Chloe Frazer, vecchia fiamma di Drake, e la mercenaria Nadine Ross, già antagonista nel precedente capitolo della serie e qui sorprendentemente “redenta” in seguito allo scioglimento dell’organizzazione Shoreline. L’origine etnica di Chloe giustifica altresì lo spostamento dell’azione nella strepitosa regione dei Ghati occidentali, una delle zone più suggestive e incontaminate dell’India, palcoscenico ideale per mettere in piedi un “romanzone” d’appendice incentrato sulla mitologia centroasiatica e sulla ricerca di un preziosissimo artefatto: la Zanna di Ganesh.
UN MAGNIFICO PALCOSCENICO DI CARTONE
In termini generali, Uncharted: L’eredità perduta risponde con efficacia adamantina alle aspettative del pubblico di riferimento: si tratta di un’avventura di taglio sfacciatamente blockbuster, in cui l’azione è sempre controllata da un deus ex machina “terzo” (che non è quasi mai il legittimo acquirente) e soggiogata a una visione cinematografica e spettacolarizzata dell’esperienza. In ciò, Naughty Dog dimostra ancora una volta di non avere rivali in questo specifico settore merceologico: nessun altra software house riesce a suggestionare tanto bene il giocatore e a convincerlo di ricoprire un ruolo essenziale nell’economia dell’insieme, laddove invece ogni movimento, ogni salto, ogni elemento propriamente attivo viene filtrato e controllato da un implacabile intreccio di scripting sotterraneo. Da questo punto di vista, il titolo rappresenta la perfetta trasposizione videoludica di una visita guidata per bambini in un parco storico a tema. Il percorso è chiaro, sicuro, accessibile a chiunque, monodirezionale, liofilizzato: può variare forse l’ordine delle attrazioni, ma esse devono essere fruite secondo le modalità stabilite a priori da chi dirige il parco.
Vittima eletta e consapevole di questo approccio è sicuramente l’ambientazione, che in Uncharted: L’eredità perduta risulta tanto straordinaria a livello ottico quanto inconsistente sul piano tattile. Le alture coperte di nebbia, le altissime cascate, le vegetazioni lussureggianti funzionano esclusivamente come sfondo di un percorso rettilineo che non prevede il loro effettivo “maneggiamento”, una reale “fruizione” fisica della materia. Come fossero attrici di una serie TV, Chloe e Nadine calpestano invisibili segni di gesso sul pavimento, sono sempre costrette a posizionarsi là dove il regista Naughty Dog ha deciso che il taglio dell’inquadratura sarà migliore. I personaggi, insomma, percorrono gli spazi, ma di fatto non li abitano: ludicamente parlando, Uncharted: L’eredità perduta avrebbe potuto essere sviluppato in 2D, e il risultato non sarebbe stato compromesso in nulla.
Meglio essere chiari: sul frangente dell’esperienza complessiva il titolo mantiene in tutto e per tutto quello che promette, e lo fa sfiorando picchi non facilmente raggiungibili dalla concorrenza. Intrattenimento puro, insomma, e di qualità senz’altro rimarchevole – se è quello che si sta cercando. Due parole, tuttavia, occorre spenderle in merito al tessuto narrativo e alle modalità con cui tale tessuto viene veicolato allo spettatore. Perché se è vero che la “fibra” di Uncharted: L’eredità perduta è quella di un videogioco che vuole a tutti i costi fingersi cinema, è vero anche che il risultato finale è un brutto cinema.
Il problema non sta tanto nel fatto che la trama persegua intenzionalmente tutti i più abusati cliché del film d’avventura classico, compreso – incredibile dictu! – il topos del cattivo che cattura i protagonisti e che invece di ucciderli a sangue freddo si allontana lasciandoli ammanettati a morire in qualche elaborata trappola archeologica. No: il problema è che, a scapito dell’ingannevole verniciatura di sarcasmo che permea i dialoghi, questa spazzatura si prende dannatamente sul serio.
Non si riscontra infatti alcuna salutare distanza ironica o parodistica nelle guasconate roboanti messe in scena da Naughty Dog. Ancora peggio, le medesime guasconate che sulla bocca di Nathan Drake risulterebbero (più o meno) tollerabili, trasferite su personaggi rappresentanti ciò che l’industria culturale statunitense definirebbe “minorities”, si colorano di un’intollerabile patina dottrinale, sulla scia del peggiore giustizialismo sociale in stile Buzzfeed. I dialoghi tra Chloe e Nadine sono infatti costantemente permeati di affermazioni su quanto loro siano forti e indipendenti, di quanto sia bello lavorare solo tra donne, di quanto l’unione e la collaborazione sia importante e così via. Unitamente all’origine non caucasica delle due, l’impressione che se ne ricava è che Uncharted: L’eredità perduta voglia primariamente assurgere a ennesimo prodotto “progressista” all’americana, e che nella continua ostentazione di un’inclusività di facciata ad uso e consumo delle minoranze di seconda e terza generazione finisca per ridurre ogni alterità alla condizione di simpatica (e dunque tollerabile) variazione colorata di un copione sempre identico. Chloe e Nadine non rappresentano affatto esempi positivi di donne forti, ma piuttosto stereotipi addomesticati e non problematici di donne “fortificate”, la cui azione impositiva – financo violenta – nei confronti del mondo circostante viene sempre giustificata aprioristicamente giacché il loro status, in quanto “di minoranza”, è di per sé inattaccabile. Il fatto che negli ultimi anni si fatichi sempre più a trovare una protagonista femminile diversa da questo paradigma (almeno nei prodotti occidentali di maggior successo) dovrebbe indurre qualche riflessione in chi di dovere.
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Uncharted: L’eredità perduta è esattamente ciò che ci si aspetta da lui: un prodotto industriale, pacifico, volatile e pop come un successo radiofonico, grasso e affidabile come un hamburger da McDonald’s. Lo si consuma con la velocità di un amoretto estivo, e va bene così. Se fate parte del vasto pubblico di riferimento, non rimarrete delusi. Gli altri, invece, dovrebbero maturare la consapevolezza di quello che stanno acquistando: un titolo dai valori di produzione altissimi (e si vedono tutti) pensato per una fruizione ampia e facilitata. Passando sopra a una linea diegetica e a una scrittura funestata dai difetti di tutta la peggiore cinematografia blockbuster americana recente, si ricava comunque un’esperienza piacevole, per quanto ludicamente frivola.