C.S.I. goes sinful

The 25th Ward: The Silver Case

Sviluppatore: GRASSHOPPER MANUFACTURE INC., Active Gaming Media Inc.
Publisher: NIS America
Genere: Visual Novel
Disponibile: Digital+retail
PEGI: 18+
Lingua: Inglese
Versione Testata: PC
Ringraziamo il publisher per averci fornito una copia review

Ricordo quando, nel 2016, mi fu proposto di recensire l’edizione rimasterizzata di The Silver Case, uno dei lavori più recenti di Goichi Suda (in arte Suda51) finalmente localizzato a livello globale. Un trailer edgy e un character design sorprendentemente realistico per una visual novel nipponica mi avevano inizialmente ben disposto ad avventurarmi nella ludografia di un director fino a quel momento a me sconosciuto. Purtroppo, quel gioco si è rivelato per me un’esperienza deludente, ma la vera sorpresa è stato osservare la critica videoludica italiana, a mio parere tendenzialmente poco avvezza al medium, affibbiargli voti come 7,5 o addirittura 8. Evidentemente, l’amore del fandom per Suda51 ha influito nel successo commerciale di un’opera così novellina, al punto da spingere Grasshopper Manifacture a recuperare il seguito di The Silver Case, chiamato The 25th Ward e di svilupparne un vero e proprio remake! Fossi stato un’altra persona, avrei gentilmente scaricato la stesura di questo pezzo a qualcun altro, ma essendo io un inguaribile completista, non ho potuto rifiutare… e per fortuna, questa iterazione si è dimostrato leggermente migliore della precedente.

The 25th Ward ha affrontato una storia editoriale molto diversa rispetto al suo predecessore: al fine di accontentare i fan desiderosi di ritornare nella Tokyo ucronica dei 24 Distretti, Suda sviluppò in fretta e furia un sequel per telefoni cellulari, rilasciando periodicamente i vari capitoli dal 2005 al 2006, un po’ come ha fatto 07th Espansion con la saga di When They Cry (recensione). Dei nuovi capitoli e una versione graficamente più aggiornata vennero rilasciati nel 2009, finché il contratto di licenza non scadette nel 2011, interrompendo la distribuzione e lasciando The 25th Ward come un gioco “fantasma”.  Il remake del 2018 comprende tutti i capitoli pubblicati, compreso un “finale” aggiuntivo.

SILVER CASE: THE RETURN

La trama è ambientata sette anni dopo gli eventi di The Silver Case, in un nuovo venticinquesimo distretto dove vengono consumati efferati delitti. La trama è suddivisa in tre sezioni: Correctness, incentrata sul dipartimento investigativo dei “crimini atroci”, Placebo, dedicata al reporter Tokio Morishima, mentre l’ultima, Match Maker, segue le missioni di una coppia di sicari ingaggiati da un’agenzia regionale di sistemazioni. Ogni scenario è in qualche modo collegato con l’altro, ma a differenza di The Silver Case, in cui i capitoli della sezione Placebo si sbloccavano man mano che si avanzava nella route principale, qui è possibile proseguire indipendentemente in qualsiasi route. Naturalmente, il buon senso suggerisce di continuare parallelamente in ciascun scenario, in modo da comprendere meglio le vicende da più punti di vista. In The 25th Ward, il vecchio dipartimento dei “crimini atroci” viene sostituito da nei nuovi membri, mentre i superstiti, come Tetsugoro Kusabi e Sumio Kodai hanno un ruolo marginale. I due nuovi agenti, Mokutaro Shiroyabu e Shinko Kuroyanagi devono investigare sugli omicidi avvenuti in un condominio residenziale, ma la pista da seguire si rivela più pericolosa e contorta del previsto. Ad assisterli c’è l’ennesimo protagonista muto, impersonato da Kamui Uehara – proprio così, il cattivo del primo gioco.

Sapete, ultimamente ho notato un certo parallelismo con la mia antipatia per The Silver Case e il mio approccio controverso con la prima stagione di Twin Peaks: una serie che comincia come un thriller investigativo per poi introdurre elementi paranormali per la soluzione del caso? Sacrilegio. Una blasfemia per il genere giallo. È per questo che apprezzai molto di più il film Fire Walk With Me e la serie revival Twin Peaks: The Return, perché si sono dimostrati fin dal principio più onesti nel loro genere. Allo stesso modo, The 25th Ward presenta una narrazione più coerente e ancor più surrealista.
La prima cosa che salta all’occhio è senza dubbio l’interfaccia del menù principale, rappresentata  da una figura umanoide formata da mini-quadrettini, che corre lungo il perimetro di un triangolo equilatero, i cui vertici rappresentano i tre scenari (c’è perfino un achievement che si sblocca se si corre per più di 2,5 km!). Una scelta bizzarra quanto carina, peccato che non possa dire lo stesso per l’interfaccia. Se in The Silver Case la scomoda selezione dei comandi era tranquillamente by-passabile digitando i corrispettivi pulsanti sulla tastiera, in The 25th Ward, il pannello di controllo si manifesta nella forma di un dado da ruotare e su cui cliccare i comandi desiderati. È un sistema confusionario, a tratti perfino frustrante, perché se ogni tanto l’azione successiva da svolgere viene mostrata subito nella prima faccia del dado, spesso il giocatore è costretto a cliccare inutilmente su ogni comando per cercare di esaurire le azioni possibili e muoversi all’area seguente. E questo non riguarda solamente il pannello di controllo, ma anche le fasi in cui si potrebbe benissimo digitare i testi dalla tastiera, ma bisogna invece ruotare pedissequamente un poliedro da dieci o trenta facce per immettere lettera per lettera un codice alfa-numerico. Qualcuno parlerebbe di “masturbazione estetica”, e a maggior ragione.

In compenso, la presenza di enigmi è molto più costante e variegata rispetto a The Silver Case. Il gioco, infatti, indugia moltissimo sulle password da decriptare, sfidando più volte la memoria del giocatore e proponendo indovinelli dalla difficoltà variabile. Non ci si troverà mai in situazioni di vero stallo, anche se l’enigma “ci sono stati Neil e Alan” mi ha fatto ponderare per diversi minuti.

Oltre a questo, bisogna affrontare dei labirinti dove si devono inserire alcune chiavi (o password, nella sezione Placebo) in un particolare ordine, degli avversari da sconfiggere in combattimenti in stile RPG retrò, e alcune sequenze dove bisogna scegliere determinate frasi tra una lista di opzioni per continuare; quest’ultimo punto, però, l’ho trovato alquanto ostico, visto che non ci sono indizi sulle risposte giuste, e l’unico suggerimento “read the flow” sembra essersi perso nella traduzione.
Sfortunatamente, non mancheranno le parti in cui bisogna ispezionare dei condomini immensi dai piani sempre uguali, per trovare i nostri ricercati. Se vi angoscia l’idea di citofonare 2560 case nel sesto capitolo, vi suggerisco di bussare solo la prima porta dei primi sei piani, per poi salire diritti all’ottantesimo e controllare il diciassettesimo appartamento. Fidatevi, vi risparmio tempo e fatica.
Come se non bastasse, ci pensa un sistema di movimento ancora più limitato e singhiozzante a rallentare ulteriormente l’esplorazione. Il che è inconcepibile per un gioco a metà tra avventura grafica e visual novel.

 

 

 

 

Contenuti

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A DAME TO DIE FOR

Per quanto riguarda la storia, The 25th Ward riprende i motivi ricorrenti di quel filone narrativo ideato da Suda51 chiamato “Kill the Past”, come il taglio col passato, la presenza di assassini e soprattutto, la futilità della morte.
In particolare, il leitmotiv principale del gioco è proprio la persistenza esistenziale post-mortem. Intrattenitrici virtuali uccise la cui presenza su Internet permane grazie all’ausilio di intelligenze artificiali, agenti il cui spirito si manifesta a volte come cartone animato, altre come un modello poligonale, e investigatori che, dopo aver sconfitto sette assassini, raggiungono l’Illuminazione e ascendono a una dimensione metafisica, sono tutti elementi che accompagnano The 25th Ward in  un crescendo estremamente surrealista. “Cosa dovrei fare se morissi?” La morte perde così ogni significato, non diventa un ostacolo per le proprie ambizioni, ma anzi, per qualcuno è quasi una liberazione.
L’antagonista non è più Kamui Uehara, bensì lo stesso venticinquesimo distretto, il cui sistema oppressivo è una prigione distopica per i suoi residenti.

La gestione del cast invece subisce un’ingente ridistribuzione dello screentime. Se nel primo gioco ciascun personaggio deteneva uno spazio abbastanza equo a, qui i protagonisti indiscussi sono gli agenti Mokutarou Shiroyabu e Shinko Kuroyanagi: il primo, analogamente a Sumio Kodai, è come un Dale Cooper giapponese, e il suo percorso di “ascesi spirituale” gli concede uno sviluppo molto interessante; l’altra invece, mantiene lo stesso linguaggio scurrile di Kusabi, condito con un temperamento tendenzialmente aggressivo, sintomo di una sindrome premestruale perenne. Sarebbe stato bello se il suo lato oscuro“otaku” fosse stato esplorato un po’ più approfonditamente, perché a parte questo, la sua caratterizzazione appare fastidiosamente statica e monodimensionale.
Nella sezione Placebo, un Tokio Morishima privato dei suoi ricordi si mette alla ricerca del proprio passato in un’avventura al limite della fantascienza, rivelando un trascorso oscuro e cospirazionista. Infine, i nuovi personaggi della sezione Match Maker, l’assassino Tsuki Shinkai e il suo assistente bishonen Yotaro Osato, formano una coppia alquanto affiatata, con una chimica quasi omoerotica.
L’unico punto interrogativo resta Kamui Uehara, il protagonista silenzioso di cui non si sa niente e la cui presenza del tutto ininfluente verrà evidenziata tre volte in tutto il gioco, una nel prologo, la seconda nel primo capitolo e l’ultima nel “finale”. Nel capitolo Blackout, infatti, il giocatore viene chiamato a scegliere l’epilogo della storia, tra 99 alternative: molte di esse sono ridondanti e quasi tutte conducono a un ‘joke ending‘ nello stile di Nier Automata. Personalmente, non mi sono speso  a provarli tutti, per cui non so neanche se esiste un “vero finale”, ma la cosa interessante è il modo con cui i personaggi rompono la quarta parete, suggerendo al giocatore di farsi aiutare da Internet o meno – per cui, mi affido anche voi, lettori di Geekgamer.

Se nella scorsa recensione avevo ipotizzato una possibile ispirazione a Sin City e Twin Peaks nella direzione artistica, in questo gioco ne ho la piena certezza. Il character design privilegia infatti una palette monocromatica, in cui gli elementi colorati, come il rossetto di Kuroyanagi o la cravatta blu di Shiroyabu, spiccano come segni distintivi. Inizialmente, Suda51 aveva scelto questa grafica per adattarsi ai limiti dei dispositivi mobili del 2005, ma a quanto pare, sembra che per questo remake abbia attinto a piene mani dallo stile di Robert Rodriguez nella bilogia cinematografica di Sin City.
L’ispirazione al telefilm lynchano invece, è così evidente sia nella narrazione che nel game design, da sfociare nel più palese citazionismo: basti pensare al terzo capitolo della sezione Placebo, dove Tokio si ritrova in una stanza virtuale molto simile alla Loggia Nera.

La colonna sonora, ancora una volta affidata a Masafumi Takada, risulta purtroppo più sottotono rispetto a The Silver Case, con poche tracce veramente coinvolgenti. Nemmeno la direzione del suono sembra essere migliorata, tanto che il giocatore deve nuovamente sorbirsi l’odioso ticchettio delle linee di testo.

The Silver Case torna alla ribalta nel catalogo di Steam con un sequel dalla storia intrigante ma rovinosamente aggravata da un gameplay pessimo e un finale anticlimatico (o peggio, un “non-finale”).
Un titolo la cui sceneggiatura lo salva dall’insufficienza, ma con dei comandi talmente scomodi e disfunzionali da smorzare anche il fan più incallito delle visual novel. Per chi volesse addentrarsi nel venticinquesimo distretto senza aver provato il primo gioco, esiste un comodo riassunto nel prologo della sezione Placebo, ma onestamente, non lo consiglierei a un fan avulso dal medium.

 

giallo

Good

  • Direzione artistica piacevole e ispirata.
  • Storia surreale e affascinante.

Bad

  • Epilogo confusionario e insoddisfacente.
  • Controlli tremendi e limitati.
  • Direzione del suono scadente.
6.1

Studente, attivista LGBTQ+ e auto-proclamato paladino della giustizia!