
Mass Effect Andromeda
Sviluppatore: Bioware Publisher: Electronic Arts Genere: RPG/TPS Disponibile: Digital+retail PEGI: 18+ Lingua: Italiano Versione Testata: PC Ringraziamo il publisher per averci fornito una copia review
Recensione in corso
Ho ormai accumulato un buon numero di ore su Mass Effect: Andromeda, e credo di poter affermare con buone ragioni che siamo di fronte a uno dei più colossali pasticci narrativi della storia della ruolistica videoludica, forse paragonabile al solo incipit di Oblivion.
Passiamo pure sotto silenzio le licenze poetiche ormai concesse da tempo alla fantascienza pop, come per esempio il fatto che le specie aliene pensanti siano tutte bipedi, unisessuate, con due occhi frontali e dotate di apparato fonorespiratorio simile a quello umano. Fingiamo poi di non notare la disturbante proiezione a livello interplanetario dello strisciante centralismo razzista statunitense: cosicché, in linea con i dettami liberal-paternalistici genere Hillary Clinton, la specie umana viene ostentatamente rappresentata in tutte la sue varietà etniche e d’orientamento sessuale, mentre razze aliene sovente ben più avanzate vengono dipinte come società compatte, indifferenziate, con tratti comportamentali che ne accomunano implacabilmente tutti gli individui.
Messo da parte un world-building che potremmo generosamente definire sfilacciato, il problema principale di Mass Effect: Andromeda sta nelle premesse diegetiche: decidendo di replicare le scelte di design sciagurate del disastroso Dragon Age: Inquisition, gli autori si sono infilati in un vicolo cieco.
PARLIAMOCI CHIARO
Tutta la prima parte del gioco cerca disperatamente di fornire al giocatore una ragione plausibile per giustificare il ruolo individualista e “messianico” del protagonista entro un contesto fantascientifico che si vorrebbe “collettivo”, visto che si sta parlando di un’epocale impresa di colonizzazione galattica finanziata da un’imprenditrice privata e composta da ventimila individui tra umani e non. Ed è veramente incredibile constatare come, all’interno del gioco, alcuni NPC siano stati appositamente deputati per rispondere – il più delle volte in modo molto maldestro – ai più che legittimi dubbi del giocatore sulla plausibilità della trama: com’è possibile che dalla Via Lattea possano essere state raccolte informazioni su Andromeda che non risalissero a milioni di anni prima? A chi è venuto in mente di impostare un sonno criogenico di seicento anni, e cosa ha fatto il resto dell’umanità nel frattempo? Perché mai una nave di ventimila coloni altamente specializzati – e tutti rigorosamente tonici come pallavolisti, ma vabbè, è Bioware… – non include uno straccio di reparto militare interno attrezzato e addestrato? E perché questi ventimila coloni dovrebbero affidare la propria sopravvivenza a un unico individuo, che è contemporaneamente anche unico responsabile della preziosissima IA di bordo?
Se la macrostoria di Mass Effect: Andromeda fa acqua da tutte le parti, a livello di microstoria il titolo riesce persino a fare peggio. Forse perché accecati da troppi focus group e sessioni di brainstorming, gli autori Bioware sembrano costantemente ricercare una connessione empatica con un pubblico di riferimento che – a giudicare da quanto ho visto finora – non si estende oltre la cerchia di un campus universitario americano. Invece di attrarre i giocatori all’interno del proprio mondo, Andromeda si sforza in tutti i modi di mettersi al loro livello, e distribuisce a piene mani fastidiosi anacronismi “post-cronologici”, tanto più stranianti quanto più si considera il tono epico e monumentale di cui la saga vorrebbe ammantarsi. L’astronave Nexus possiede la tecnologia necessaria per raggiungere una galassia posta a 2500 milioni di anni luce dalla Terra, ma gli autori vogliono farci credere che i personaggi continuino a intrattenersi con il poker analogico e la cinematografia tradizionale, comunichino tra di loro attraverso le email (con tanto di allegati!) e lascino simpatici commenti su un surrogato di Facebook. Il tenore linguistico dei protagonisti non è quasi mai adeguato al mondo che si suppone essi stiano abitando, e cede troppe volte il fianco a un fastidioso giovanilismo d’accatto da associazione studentesca della East Coast. Il protagonista, Ryder, sembra uno di quegli insopportabili istruttori aziendali carichi di entusiasmo indotto e fasullo, e cresciuti esclusivamente a powerpoint e barrette proteiche. Le conversazioni pullulano di ovvietà retoriche tipo “Ce l’abbiamo fatta!” e “Dobbiamo essere una squadra unita!”, mentre ingegneri e tecnici specializzati si esprimono come teenager soddisfatti per aver appena ridipinto la bicicletta nel cortile. Si ricava l’impressione che la spedizione sia composta di soli adolescenti messi a recitare il ruolo dei “grandi”. I pochi adulti veri e propri, quelli della “generazione responsabile”, vengono tolti di mezzo dopo pochi minuti di gioco o restano figurine simil-genitoriali tenute a opportuna distanza affinché non stiano troppo fra i piedi – penso per esempio alla direttrice Addison.
Il gameplay? Ah già, dimenticavo. Al netto di un sistema di combattimento pure interessante (di cui si parlerà nella prossima recensione) la traballante impalcatura narrativa di cui sopra serve appena per tenere insieme una versione extraterrestre degli immobili diorami di Dragon Age: Inquisition. Mondi di per loro fascinosi ma cristallizzati in un eterno presente e sfruttati come semplici sfondi teatrali per le infinite passeggiate di Ryder e della sua truppa. Quando non sono basate sul puro farming, le quest si riducono al 90% a lunghissime traversate da un lato all’altro della mappa: per sbloccare l’ingresso di una cripta c’è sempre bisogno di attivare tre chiavi, c’è sempre qualcuno che ha dimenticato il fratellino/collega/scopamico dall’altra parte del pianeta, e la principessa è sempre in un altro castello.
Credetemi: le facce di gomma e i bug sono davvero l’ultimo dei drammi di Andromeda.
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