Nonostante una certa critica e un certo pubblico abbiano continuato a negare l’evidenza, la parabola qualitativa discendente dei prodotti Bioware è sotto gli occhi di chiunque: tra polemiche, pause di riflessione, movimentazioni di studi e personale, la fama della compagnia canadese ha subito colpi piuttosto duri – complici soprattutto la pubblicazione di prodotti inqualificabili come Dragon Age: Inquisition e Mass Effect Andromeda, oltre che l’ascesa di una concorrenza sempre più agguerrita.
Francamente, non ci sembrava che un prodotto come Anthem, annunciato nel corso dell’E3 207 e previsto per febbraio 2019, potesse contribuire a risollevare le sorti di Bioware. A renderci perplessi era in particolar modo l’assoluta genericità artistica e ludica del prodotto. Nonostante finora si sia visto poco più di un trailer e qualche video di gameplay della demo messa a disposizione durante l’E3 di quest’anno, è apparso subito evidente come Anthem non potesse vantare alcun elemento realmente distintivo, un qualcosa che fosse in grado di differenziarlo dall’impressionante schiera di shooter a tema fantascientifico annunciati nel corso del medesimo evento. In soldoni: provate a prendere un personaggio qualsiasi di Anthem e piazzatelo all’interno di una ambientazione qualsiasi di uno qualsiasi dei titoli concorrenti. Notate qualche differenza? Noi, a dire il vero, no.
Il beneficio del dubbio si concede a chiunque, ovviamente. Ed è abbastanza chiaro che in casa Bioware qualcuno deve aver riflettuto a lungo sugli ultimi fallimenti, e di quello di Andromeda in particolare, un titolo di fatto scomparso dai radar a poche settimane dalla sua pubblicazione. In una recente intervista con VG24/7, il game director Jonathan Warner ha spiegato le ragioni dei cambiamenti che Anthem sembra apportare alla “tradizione Bioware”:
“Nello sviluppo di Anthem, volevamo far sì che si presentasse come una cosa a sé […] Ci saranno scelte, ma in Anthem, che è un RPG “social” in un universo condiviso, ci preoccuperemo meno di creare una storia molto ramificata e ci concentreremo sulla messa a punto di una narrativa personale. Ci saranno decisioni da prendere, ma il tema centrale è un po’ differente in questo gioco”.
Stando a precedenti dichiarazioni, l’obiettivo principale di Bioware dovrebbe essere quello di superare gli attuali standard della videoludica social producendo un titolo la cui componente single-player possa interagire armoniosamente con un mondo che resta comunque condiviso tra molti giocatori. La sfida è senza dubbio ambiziosa, ed è abbastanza chiaro che, almeno sul piano teorico, l’unico modo per evitare il caos sembra essere quello di lavorare sull'”apparenza” del suddetto mondo condiviso, sul quale le scelte del singolo non potranno essere del tutto rivoluzionarie. In altre parole, al giocatore dovrà sembrare di poter recitare un ruolo più importante e con un impatto “globale” molto maggiore di quanto esso effettivamente sia. Warner sembrerebbe confermare tra le righe questa ipotesi:
“Volevamo far sì che il mondo apparisse come un vero spazio condiviso. Abbiamo sincronizzato i cicli climatici e l’alternanza giorno-notte. Immaginiamo che tu sia in Inghilterra e io in Canada, entrambi stiamo giocando – senza collaborare, solo giocando – e il giorno dopo ci sentiamo su Skype, e ci diciamo cose tipo “Ehi, hai visto la tempesta la scorsa notte? Non è stata stupenda?” Insomma, condividiamo qualcosa anche se non abbiamo giocato nello stesso gruppo”
Si tratta, per dirla tutta, di un sistema estremamente semplice, che rischia di apparire superficialmente decorativo se non sviluppato con la dovuta profondità. Il pericolo principale è quello di trovarsi di fronte a un comune team-game ambientato su uno sfondo sì dinamico, ma ridotto nel complesso a scenografia ornamentale. Bioware non è del resto nuova alla creazione di ambientazioni virtualmente “immobili”, la cui natura statica è stata finora condizionata dall’approccio narrativo da sempre perseguito negli RPG della casa. La dichiarata attenzione rivolta alla storia personale dell’avatar (o del gruppo di avatar) potrebbe contribuire a scardinare questa tradizione… a patto di non virare verso quello che è diventato lo standard tipologico del 90% dei prodotti AAA da un quinquennio a questa parte: vale a dire il tipico, epidermico e scriptatissimo polpettone misto di adventure e open-world RPG di Tomb Raider, Horizon Zero Dawn, God of War, Assassin’s Creed, e così via. Titoli di successo, senz’altro investimenti sicuri per le case di produzione, ma allo stesso tempo in larga parte vacui, interscambiabili, e parimenti dimenticabili.
Che altro dire? Appuntamento a febbraio 2019, dunque.